Che bel caffè, ma Radetzky stona: il nuovo volto di Porta Nuova a Milano

12 Marzo 2019

Quando vado a Milano, cioè almeno due volte al mese, vivo tra Porta Garibaldi e via Solferino. È un quartiere molto interessante, perché è un quartiere inventato, o meglio innestato. Sull’anima preesistente si sono infatti innestate altre anime, altre città, altre genti. Via Paolo Sarpi è oggi forse la Chinatown più bella d’Europa. Di sicuro è quella in cui si mangia meglio. A differenza della Chinatown di Londra, non è un posto per turisti. È un luogo dove una comunità attiva, laboriosa, dinamica si è inserita, dopo le difficoltà iniziali ha risolto una serie di problemi, e ora coltiva una duplice identità, cinese e milanese (ma in zona lavorano anche ottimi cuochi indiani e bengalesi).

Dove oggi c’è piazza Gae Aulenti, con il quartiere che le è sorto attorno, c’era un buco nero. Il lunapark delle Varesine era stato dismesso da tempo. Qui il design e i capitali in buona parte stranieri hanno fatto nascere un pezzo di città, quasi tutto pedonale. I ristoranti sono esotici e carissimi, ma c’è anche Andrea Berton con i suoi brodi. Si può arrivare a piedi da Garibaldi in Centrale quasi senza incrociare un’auto. Il bosco verticale è bellissimo. È qui anche la biblioteca degli Alberi. Metropoli e natura possono stare insieme, è pure il tema della Triennale.

Anche la Feltrinelli di viale Pasubio è un luogo inventato. Questo non significa che non abbia un’anima, anzi. Qualche abitante della zona rimpiangeva il vivaio che c’era qui, e temeva di perdere la vista delle montagne e del tramonto. Ma ora può salire all’ultimo piano, dove si presentano i libri: il panorama è di commovente bellezza. E accanto alla Feltrinelli ha portato nel palazzo il quartier generale pure Microsoft. Amazon è a poche centinaia di metri (ma a me Amazon non è simpatica, mi fa venire in mente i milioni di piccoli commercianti, rappresentanti, distributori, commessi che hanno perso il lavoro a causa dell’e-commerce).

Oltre alle botteghe, alle edicole, alle librerie, ai cinema, a tutto quello che ha fatto bella la vita a generazioni e viene ora soppiantato dalla rete, chiudono pure i teatri. Lo Smeraldo ha chiuso, e al suo posto ha aperto Eataly. Eataly è una festa per gli occhi e il palato, il mio compatriota langhetto Oscar Farinetti ha avuto un’idea geniale. Però l’ideale sarebbe avere sia Eataly sia lo Smeraldo. L’ultima volta andai a un concerto di Lucio Dalla, e anche lui mi manca molto. C’è un pezzo di Eataly nel nuovo cinema Anteo (non amo la definizione «radical chic», ma l’Anteo un po’ lo è. I film però sono ben scelti).

In zona c’è pure l’Hollywood, ma lì non sono mai stato né mai andrò. E di corso Como non mi piace l’odore di marijuana che si respira già il tardo pomeriggio, figuriamoci la sera. Tutti sanno che qui si spaccia. Qualche controllo in più non sarebbe male. Però c’è l’oasi di corso Como 10, dove sembra di essere a Marrakech.

Poi c’è Napoli. Il Vasinikò, che poi sarebbe «basilico», dove fanno una pizza buonissima, e il bar quasi in largo La Foppa, dove il caffè è straordinario, infatti sono napoletani. (C’è anche un’ottima caffetteria palermitana in un albergo, con i cannoli e tutto). Di fronte c’è il Radetzky, con cui ho un rapporto contraddittorio. È un posto che amo, insieme con il bar Magenta lo considero il più bel caffè di Milano; eppure ne detesto il nome.

Radetzky è stato il carnefice delle Cinque Giornateha fatto sparare con i cannoni sui popolani milanesi in rivolta, è stato il capo di un esercito d’occupazione che impiccava i patrioti; perché Milano dovrebbe rendergli omaggio? Aveva un’amante e un maggiordomo italiani, d’accordo. I collaborazionisti si trovano sempre. Dove sono il caffè Carlo Cattaneo, il caffè Luciano Manara, il caffè Enrico Dandolo, il caffè Amatore Sciesa? Sono nomi che ai ragazzi del venerdì sera con il bicchiere in mano non dicono nulla. Sciesa, prima di consegnarlo al boia, lo portarono sotto casa, dove abitavano i suoi cari, e gli promisero la libertà in cambio dei nomi dei compagni. Lui — racconta la tradizione popolare, cui mi piace credere — rispose in milanese: «Tiremm innanz», andiamo avanti, andiamo a morire, meglio morire che tradire. Ma sono cose che non si usano più, e ora riceverò decine di lettere in difesa di Radetzky e degli austriaci. Un popolo che disprezza se stesso non ha futuro. Ma non cadiamo nella malinconia, perché Milano non è malinconica, e di sicuro non lo è il quartiere.

Riaprire i Navigli sarebbe un’ottima idea, sia pure osteggiata. Qui sotto è pieno d’acqua, ad esempio a San Marco. Non avendo il mare, il fiume, il lago, le colline, Milano dovrebbe riprendersi almeno una parte dei Navigli. Delizioso lo specchio d’acqua di via Castelfidardo. Qui vicino Indro Montanelli vide una classe di ragazzini giocare a pallone dopo la morte del Grande Torino, e scrisse un articolo memorabile. Come disse Borges, ogni volta che un ragazzino prende a calci qualcosa per strada, ricomincia la storia del calcio.

Il bello è che qui la vecchia Milano non è morta. In via Maroncelli, accanto alle gallerie d’arte e al fiorista, c’è ancora l’elettrauto. E ci sono i vecchi milanesi che vivevano attorno allo scalo Farini. Davanti a Princi si radunano invece i giovani rider in attesa delle chiamate. Sono africani, maghrebini, sudamericani. I milanesi preferiscono mangiare a casa. Loro pedalano. Diventano pericolosi solo quando lo fanno contromano.

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